Marilisa Cianflone – Studio Legale Limardi.
L’art 29 Cost. riconosce il matrimonio come fondamento della famiglia.
Il matrimonio è un negozio giuridico che ha per effetto la costituzione dello stato coniugale e per causa la comunione di vita materiale e spirituale tra i coniugi.
Dal rapporto di coniugio scaturiscono una serie di diritti e di doveri che assicurano, al coniuge una tutela giuridica peculiare proprio per il fatto di appartenere a un nucleo familiare. Tale tutela si realizza mediante la sussistenza, in capo al coniuge, del dovere di fedeltà, coabitazione, collaborazione, assistenza morale e materiale e di contribuzione, così come esplicitamente imposto dal legislatore nella formulazione del secondo comma dell’art. 143 c.c.
In tempi remoti, in cui il diritto vigente era il diritto romano, si parlava di “affectio maritalis” non soltanto come volontà (e dunque elemento psicologico) di vivere come marito e moglie, ma anche come esteriorizzazione di tale volontà nel comportamento sociale degli sposi. In termini più concreti e soprattutto rapportati alla realtà odierna, tale locuzione è da intendersi come il sacrificio degli interessi e delle scelte individuali di ciascun coniuge che si rivelino in conflitto con gli impegni e le prospettive della vita in comune. Impliciti risultano dunque, in un contesto di così ampio raggio, i principi di lealtà e rispetto, che seppur non formalmente codificati, sono alla base di ogni rapporto interpersonale tra soggetti aventi capacità d’intendere e volere e, ancor più, nella singola fattispecie in questa sede considerata.
In merito all’obbligo di fedeltà in costanza di matrimonio invece, il nostro legislatore non lascia spazio ad alcuna libera interpretazione, infatti, in modo preciso e perentorio dispone: “Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà (…)”, intendendo per fedeltà la promessa che i coniugi si scambiano, di non tradire il rapporto di reciproca dedizione fisica e spirituale.
Sebbene però, questo dovere (così come tutti gli altri che discendono dal matrimonio) costituisce un vero e proprio obbligo di natura giuridica, l’adempimento dello stesso è affidato alla volontà delle parti, onerate a rinnovare le vicendevoli promesse quotidianamente, in modo da favorire il sereno prosieguo della vita di coppia. La violazione di siffatto dovere, non può costituire materia di pretese coercibili, poiché al soggetto attivo non è accordata alcuna azione per l’adempimento.
Non essendo più il matrimonio legato all’idea cattolica dell’indissolubilità del vincolo (successivamente alla legge n. 898 del 1970), il soggetto leso, potrà chiedere la separazione ed intentare delle azioni in suo favore, che saranno differenti a seconda che si tratti di separazione consensuale oppure di separazione giudiziale.
In merito alla separazione consensuale, è implicito, così come chiaramente suggerito dal termine stesso “consensuale”, che vi sia alla base un pacifico accordo e dunque una comune volontà tra i coniugi sul modus operandi circa la separazione in atto. Fatta salva ovviamente, per la parte che ha subito il tradimento, la possibilità di una richiesta di risarcimento con un’azione separata dal procedimento in itinere. Condizione necessaria a tal proposito è che il tradimento abbia causato al partner un pregiudizio ulteriore rispetto all’ovvia sofferenza psichica provocata dall’infedeltà, dimostrando di aver patito un’effettiva e grave lesione ai diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, come ad esempio, alla reputazione, all’onore e alla dignità.
(sent. Cass. civ. I sez del 2011 n. 18853)
Più complesso è, invece, il caso di separazione giudiziale: la parte lesa, potrà avvalersi del disposto del secondo comma dell’art 151 c.c. (che testualmente recita: “il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”) richiedendo al giudice l’addebito della separazione alla sua consorte, la quale ha portato avanti una relazione extraconiugale, causa della derivante e inevitabile separazione di fatto.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione in via consolidata ritiene che la condotta di un coniuge contraria ai doveri nascenti dal matrimonio è condizione necessaria, ma non sufficiente per la declaratoria di addebito della separazione. E’ infatti indispensabile che sussista un nesso di causalità tra tale comportamento e l’intollerabilità della convivenza. Tale efficienza causale dovrà quindi escludersi quando l’adulterio s’inserisca in un menage familiare già gravemente compromesso, ovvero nel caso in cui esso sia stato poi successivamente superato dagli stessi coniugi con la ripresa di una serena vita familiare.
Inoltre la concezione dell’infedeltà coniugale ai fini dell’addebito della separazione ha subito un evoluzione nel modo d’intendere l’obbligo di fedeltà, non più limitato solo alla sfera sessuale, ma da estendere al più generale concetto di lealtà. La giurisprudenza e la dottrina hanno dunque superato la concezione di fedeltà come mera astensione da rapporti sessuali con terzi e hanno iniziato a dare rilievo anche a situazioni diverse, come ad esempio le ipotesi di tradimento platonico (senza nessun tipo di rapporto fisico) e tradimento apparente (circostanza oggettiva simile a una relazione adulterina senza, tuttavia, una certezza effettiva) che in ogni caso potrebbero turbare la serenità familiare (Cass civ 12 dicembre 2008 n. 29249).
Notevoli passi avanti sono stati fatti anche con riguardo all’estensione della copertura temporale delle condotte rilevanti ai fini dell’addebito della separazione, infatti la Cassazione n.17710 del 2005 ha disposto che “il comportamento tenuto dal coniuge successivamente al venir meno della convivenza, ma in tempi immediatamente prossimi a detta cessazione, sebbene privo, in se, di efficacia autonoma nel determinare l’intollerabilità della convivenza stessa, può nondimeno rilevare ai fini della dichiarazione di addebito della separazione allorchè costituisca una conferma del passato e concorra ad illuminare sulla condotta pregressa”
Tuttavia, il fallimento matrimoniale imputabile ad una relazione extraconiugale intrapresa da uno dei due partners potrebbe essere motivo di ulteriori conseguenze per l’altro coniuge, come l’insorgere di uno stato di oggettiva difficoltà, in primis sotto l’aspetto psicofisico e in secundis sotto quello lavorativo.
Queste situazioni, se tali da comportare l’addebito della separazione, appaiono anche meritevoli di un trattamento risarcitorio, considerato il danno ingiusto subito dal coniuge “incolpevole”. In presenza di determinate condizioni, il tradimento, infatti, può dar luogo alla responsabilità Aquiliana di cui all’art. 2043 c.c., laddove si dimostri che ciò abbia leso la salute e la dignità della persona tradita.
A questo proposito, una prima apertura si è avuta con al sent. N. 9801 del 2005, in cui la Suprema corte ha ritenuto risarcibili le lesioni dei diritti fondamentali della persona sotto il profilo costituzionale, valutando la violazione dei diritti fondamentali della persona come il decoro,il prestigio, la dignità e la salute, osservando che i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio non sono soltanto di carattere morale, ma hanno natura giuridica (ex art 143 c.c.) e quindi, dalla violazione di questi, può derivare l’obbligo risarcitorio allorchè risultano violati principi basilari della personalità umana.
Benchè quest’ultimo sia un requisito comune alla richiesta di risarcimento del danno sia nella separazione consensuale che in quella giudiziale, è bene chiarire che una netta differenza risiede nel fatto che nella separazione giudiziale l’azione di risarcimento del danno può essere proposta anche nel giudizio di separazione unitamente alla domanda di addebito, poiché queste due azioni, solo in tale ipotesi, possono sicuramente coesistere (sent. Cass. civ. I sez del 2012 n. 8862).
In ogni caso però, secondo l’orientamento prevalente dei giudici di merito, le azioni risarcitorie vanno proposte con azioni separate e non all’interno della separazione. Ciò soprattutto in quanto, domande diverse da quelle tipiche della separazione (es. addebito), non possono essere trattate nelle stesse sedi processuali, sebbene connesse con la domanda di risarcimento del danno, a causa della diversità del rito di cui trattano le diverse domande ed in particolare per le specialità del rito matrimoniale, che non permette la riunione con altre azioni ordinarie.
In definitiva, quando si è in presenza di una violazione di un dovere coniugale che abbia leso un diritto costituzionalmente tutelato della persona, marito o moglie che sia, è ipotizzabile richiedere, oltre ovviamente alla separazione con addebito, un risarcimento del danno subito a seguito dei comportamenti illeciti del coniuge, qualora essi siano incompatibili co il sano e normale andamento della vita di coppia e mostrino un evidente disinteresse nei confronti del partner.
In virtù del principio vigente nel nostro ordinamento dell’onere della prova a carico della parte che ha interesse a far valere un suo diritto, spetterà al coniuge tradito dimostrare l’entità dei danni subiti, sia morali che economici, avvalendosi degli strumenti tipici quali perizie, certificazioni, testimonianze etc.