Di Avv. Samantha Pinna – Studio Limardi
Articolo Pubblicato sulla rivista Filodiritto l’10 dicembre 2020. Tutti i diritti sono di Filodiritto.
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La sentenza della Cassazione del 2 agosto 2017, n. 19272, esaminata nell’ambito del precedente approfondimento dedicato a “Associazioni sindacali: Repressione della condotta antisindacale e legittimazione attiva”, oltre ad affrontare l’interessante tema dell’individuazione degli organismi sindacali legittimati ad agire, ha affrontato anche un’altra questione di rilievo, ovvero, la riscossione delle quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro.
In particolare, la Suprema Corte di Cassazione ripercorrendo le proprie precedenti decisioni ha chiarito taluni aspetti fondamentali, che è opportuno sinteticamente richiamare.
I Giudici hanno rilevato che dall’abrogazione referendaria della L. n. 300 del 1970, articolo 26, co. 2, (ai sensi del quale “Le associazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscono la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale. Nelle aziende nelle quali il rapporto di lavoro non è regolato da contratti collettivi, il lavoratore ha diritto di chiedere il versamento del contributo sindacale all’associazione da lui indicata.”, comma abrogato dall’articolo 1, D.P.R. 28 luglio 1995, n. 313), non è scaturito un divieto di riscossione delle quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, ma è solo venuto meno il relativo obbligo legale.
Sul punto si veda, da ultimo, anche la sentenza n. 13857/2019 con la quale la Corte di Cassazione ha ribadito come sia legittima la riscossione di quote associative sindacali dei dipendenti pubblici e privati a mezzo di trattenuta ad opera del datore di lavoro, atteso che, una differente interpretazione, sarebbe incoerente con la finalità legislativa antiusura posta a garanzia del lavoratore, il quale, altrimenti, subirebbe un’irragionevole restrizione della sua autonomia e libertà sindacale.
Il D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, articolo 52, come modificato dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, articolo 13-bis, convertito dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, difatti, nel disciplinare tutte le cessioni di credito da parte dei lavoratori dipendenti, non prevede limitazioni al novero dei cessionari.
Le uniche limitazioni previste dalla norma sono circoscritte alle sole cessioni in qualsiasi modo collegate a concessioni di prestiti e riguardano soggetti che, al tempo stesso, sono erogatori di credito e cessionari e non riguardano pertanto cessioni del tutto slegate dalla concessione di crediti, quali sono quelle in favore delle associazioni sindacali per il pagamento delle quote associative.
A ciò si aggiunga che, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 26 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, sopravvissuto alla abrogazione referendaria, i prestatori di lavoro hanno il diritto di raccogliere contributi nonché di svolgere attività ed opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali, all’interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale.
L’interesse del sindacato a ricevere le quote sindacali resta, pertanto, legislativamente protetto, dal momento che il primo comma dell’articolo 26 della legge n. 300 del 1970 contempla, comunque, il diritto dei lavoratori di raccogliere i contributi sul luogo di lavoro, con conseguente compressione del potere di organizzazione imprenditoriale.
Sicché i lavoratori, nell’esercizio dell’autonomia privata e mediante la cessione del credito in favore del sindacato, possono chiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi da accreditare al sindacato cui aderiscono, da configurarsi quale cessione del credito ex articolo 1260 codice civile e, dunque, non necessitante del consenso del debitore (al riguardo si segnala la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 22 dicembre 2005, n. 28269 che ha risolto il contrasto sino a quel momento esistente in merito alla utilizzabilità o meno dell’istituto della cessione del credito).
Infatti, mentre la cessione del contratto, comportando la sostituzione della parte tenuta all’esecuzione del rapporto, richiede sempre il consenso della parte ceduta, questo consenso non è richiesto per la cessione di credito, in quanto il cedente aliena e trasferisce semplicemente una pretesa creditoria e, normalmente, per il debitore ceduto è indifferente eseguire la prestazione ad un nuovo avente diritto.
Ne consegue che, qualora il datore di lavoro affermi l’insostenibilità dell’onere aggiuntivo a suo carico (in concreto per effetto di tale cessione in rapporto all’organizzazione aziendale), egli ha l’onere di provare, ai sensi dell’articolo 1218 codice civile, che “la gravosità della prestazione sia tale da giustificare il suo inadempimento: dovendosi escludere che l’insostenibilità dell’onere possa risultare semplicemente dall’elevato numero di dipendenti dell’azienda, ma piuttosto da una valutazione di proporzionalità tra la gravosità dell’onere e l’entità dell’organizzazione aziendale, tenuto conto che un’impresa con un elevato numero di dipendenti ha di norma una struttura amministrativa corrispondente alla sua dimensione”.
Non appare difatti sostenibile l’assunto per il quale, altrimenti sarebbero posti a carico della società datrice di lavoro oneri non previsti e comunque insostenibili. Nel bilanciamento dei diversi interessi non è affatto illogico che prevalga quello del sindacato alla raccolta dei contributi ed al versamento diretto degli stessi.
Peraltro, il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti, secondo il tipo negoziale della cessione del credito “configura un inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto oggettivamente idonea a limitare l’esercizio dell’attività e dell’iniziativa sindacale” (Corte di Cassazione, sentenza n. 24612 del 2019).
In tal caso, il carattere antisindacale della condotta sussiste sia dal lato del lavoratore, sotto il profilo della limitazione del diritto a scegliere, e a vedere attuato, lo strumento ritenuto più utile ai fini della partecipazione all’attività sindacale; sia dal lato dell’organizzazione destinataria del contributo associativo, posto che l’effetto del rifiuto è quello di privare i sindacati della possibilità di percepire con regolarità la fonte primaria di sostentamento per lo svolgimento della loro attività e posti in una situazione di debolezza, non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche delle altre organizzazioni sindacali con cui sono in concorrenza.
In particolare, costituisce condotta antisindacale il rifiuto del datore di lavoro di effettuare, dietro richiesta del dipendente, le trattenute sulla retribuzione e il versamento dei contributi sindacali, anche se a favore di sindacati non firmatari del contratto collettivo applicato in azienda.
Come sopra chiarito, infatti, l’abrogazione del 2° e del 3° comma dell’articolo 26 dello Statuto dei Lavoratori, avvenuta a seguito del referendum dell’11 giugno 1995, non ha inciso sul diritto dei lavoratori di ottenere dal datore di lavoro, attraverso lo strumento della cessione del credito in favore del sindacato, la trattenuta sulla retribuzione dei contributi sindacali, salvo che la cessione comporti in concreto, a carico del datore di lavoro, un onere aggiuntivo insostenibile in rapporto all’organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex articolo 1175 codice civile.