Il Trust e la responsabilità patrimoniale


Angela Gatto – Studio Legale Limardi.

Il trust rappresenta un istituto che non fa parte della nostra tradizione giuridica, ma nasce e si sviluppa negli ordinamenti di common law. La dottrina definisce l’istituto come “un  rapporto fiduciario, derivante dalla volontà privata o dalla legge, in virtù del quale colui (fiduciario, trustee) che ha su determinati beni o diritti la proprietà formale (trust-overnership, legal estate) o la titolarità è tenuto, per effetto della proprietà sostanziale (beneficiary-overnership, equitable estate) che non è in lui, a custodirli e (o) amministrarli, o comunque a servirsene a vantaggio di uno o più beneficiari, tra i quali può anche essere compreso, o di uno scopo”[1].

Prima di analizzare l’ultimo orientamento giurisprudenziale che incide, anche se indirettamente, sullo sviluppo nel nostro ordinamento dell’istituto di cui si tratta, appare utile svolgere una breve introduzione circa la struttura dello stesso.

Il trust vede coinvolti diversi soggetti: il settlor ovvero il costituente; il trustee o affidatario; il beneficiary o beneficiaries; il protector o tutore (figura non necessaria e non sempre presente). Il settlor è il soggetto che da vita al trust attraverso il trasferimento della proprietà dei beni al trustee, può essere persona fisica o giuridica e perde definitivamente la proprietà del bene mediante il conferimento.

L’elemento di completa novità per l’ordinamento giuridico italiano è rappresentato dal trustee, figura cardine dell’istituto. Al trustee vengono trasferiti i beni e i relativi diritti con l’obbligo di gestirli e amministrarli a favore del beneficiario. Esso acquisisce la proprietà formale (legal estate) dei beni con l’unico fine di realizzare lo scopo del trust. La sua attività di amministrazione, altamente discrezionale, viene frenata dai limiti posti dal trust deed.

Il beneficiary è il soggetto destinatario dei beni e redditi prodotti per effetto del trust, può essere sia una persona fisica che giuridica, ovvero può essere un ente di varia natura ed anche un altro trust.

Infine il protector, figura non necessariamente presente, è una sorta di mandatario del settlor che riveste il compito di controllare l’operato del trustee ed, inoltre, ha il potere di fare rispettare il trust deed attraverso una stretta vigilanza.

Il trust è riconosciuto nell’ordinamento giuridico italiano grazie al meccanismo previsto dalla convenzione dell’Aja (ratificata l’1 giugno 1985 e riconosciuta in Italia con la legge 16 ottobre 1989, n. 364 ed entrata in vigore il 7 gennaio 1992), detto di “importazione”, attraverso il quale si effettua un richiamo alla legge di un paese che lo prevede espressamente come istituto. Attraverso la ratifica della convenzione dell’Aja, è divenuto quindi possibile costituire un trust su beni siti in Italia retto da una legge straniera, con tutti gli effetti tipici che discendono da tale legge.

L’elemento caratterizzante il trust, che ne ha permesso un utilizzo sempre maggiore nel nostro paese, è la sua enorme duttilità. Il trust presenta la capacità, infatti, di colmare alcune lacune dell’ordinamento italiano al fine di garantire la più ampia tutela ad interessi di natura sociale, commerciale o dei singoli soggetti, che non riescono ad avere un’adeguata protezione attraverso il ricorso agli istituti giuridici tradizionali. Lo stesso, tuttavia, non rappresenta un istituto con una causa tipica ma sembra, al contrario, incarnare le vesti di uno schema astratto di rapporti.

L’art. 13 della convenzione Aja pone l’attenzione proprio sull’ammissibilità del trust negli stati nei quali, lo stesso, non è espressamente disciplinato. Secondo il richiamato articolo “nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge regolatrice, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente collegati con Stati che non conoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in gioco”. La problematica di cui la norma si occupa, riguarda l’ammissibilità dei c.d. “trust interni”. Si rende necessario, in sostanza, stabilire se la convenzione ammetta o meno la possibilità di creare trust i cui elementi sono localizzati tutti in un Paese, salvo la scelta operata dal settlor a favore di una legge straniera che conosce il trust.

Da questa incertezza applicativa emerge un conflitto tra due contrapposti interessi: da un lato quello dello sviluppo del trust come conveniente mezzo per organizzare rapporti civili e commerciali; dall’altro il timore di consentire alle parti pratiche elusive nei confronti di disposizioni imperative di ordinamenti, come quello italiano, che non conoscono l’istituto e che prevedono principi ostativi all’effetto di segregazione dei patrimoni delle persone (v. art. 2740 cod. civ.).

Il tema, relativo alle possibili deroghe al principio generale dell’universalità della responsabilità patrimoniale del debitore (art. 2740 c.c.), è sempre più attuale anche grazie alla recente giurisprudenza che è tornata ad occuparsene.

La Suprema Corte, in particolare, con Sentenza n. 3568 del 23.2.2015 – Cass. Civile Sezione VI – ha affrontato nuovamente il tema della legittimità dell’azione revocatoria dell’atto costitutivo di un fondo famigliare. Le posizioni della giurisprudenza sul tema, che riprendono sostanzialmente quanto già si affermava per l’istituto della dote e del patrimonio famigliare, hanno ora la necessità di confrontarsi con il mutato quadro normativo, che ha visto introdurre nel nostro sistema le ipotesi di deroga al principio contemplato dall’art. 2740 c.c..

Alcuni esempi di figure che realizzano una, più o meno intensa, segregazione del patrimonio del soggetto sono, oltre al fondo patrimoniale ed al trust, i patrimoni destinati per le società per azioni (art. 2447-bis c.c.), gli atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.), la cartolarizzazione dei crediti (l. 30.4.1999, n. 130) e infine le ipotesi di esdebitazione introdotte nell’ambito delle procedure concorsuali (art. 142 e ss. l. fal. e le nuove disposizioni sul concordato preventivo, artt. 160 e 168-bis l. fal.). Nel campo delle procedure concorsuali, ad esempio, la legge fallimentare, all’art 142 permette, al debitore-persona fisica, di ottenere l’esdebitazione per i debiti non soddisfatti all’esito della procedura di fallimento, delimitando così la sua responsabilità verso i creditori ai soli beni presenti nel suo patrimonio a quel momento ed escludendo, dunque, i beni futuri. Per il concordato preventivo si è invece stabilito che il debitore possa proporre un piano, che preveda la prosecuzione dell’attività di impresa, mediante la cessione anche solo parziale dei beni con l’intento di favorire il risanamento dell’impresa.

Dalle predette innovazioni sorge, dunque, l’esigenza di modificare e riconsiderare il concetto di responsabilità patrimoniale. L’ultimo segnale in questo senso si ha proprio dal recente, e più generale, intervento legislativo, che introduce nel codice civile l’art. 2645-ter c.c. (introdotto con la l. n. 44/2012), il quale legittima i negozi segretativi del patrimonio non tipizzati, quando esprimono interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.

Sembra ormai essere, dunque, superata la concezione unitaria del patrimonio, elaborata all’epoca delle prime codificazioni del codice civile. Il nuovo assetto socio-economico e normativo, anche sotto la spinta di esigenze concorrenziali derivanti dall’ordinamento europea, ha portato all’abbandono della precedente concezione, verso una nozione di patrimonio come “complesso di beni appartenenti ad un soggetto, autonomamente compendiabili a seconda le funzioni che la legge, nei vari settori, consente di perseguire”[2].

Il superamento della sopra esposta impostazione è stato interpretato come funzionale all’efficienza economica derivante dalla segmentazione della responsabilità patrimoniale (cd. asset partitioning), assegnando alla specializzazione delle garanzie la qualifica di regola che più si adatta alle esigenze della moderna economia e alla crescita del mercato. Tuttavia la dottrina giuridica ha osservato che le suddette considerazioni sono orientate, soprattutto, verso l’operatività di strumenti di limitazione dei rischi patrimoniali in ambito finanziario e sono legate all’elemento corporativistico, peccando invece nella non adattabilità ad un ambito più generale, quale quello dell’intero panorama dei rapporti privatistici.

Tuttavia, il principio della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c., risponde pur sempre ad interessi di rango costituzionali e costituisce ancora l’indice decisivo che rileva la giuridicità del rapporto obbligatorio, come peraltro afferma la stessa Corte Costituzionale (Corte Cost., 15.7.2002, n. 329). Ne deriva che la norma di cui all’art. 2740 c.c. continua ad avere, nella giurisprudenza, il valore di norma di ordine pubblico.

Con riferimento agli strumenti negoziali, quali ad esempio il trust, che comportano una limitazione della responsabilità del soggetto che intende creare un patrimonio separato, occorre dunque effettuare, necessariamente, un bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco quali, da un lato, quelli del disponente e dei beneficiari della destinazione patrimoniale, e dall’altro, quelli dei creditori dello stesso disponente.

Il punto di incontro tra le diverse esigenze è stato rinvenuto dalla più recente giurisprudenza nell’azione revocatoria (ordinaria e fallimentare) dell’atto di segregazione; parallelamente, per quanto attiene in particolare al fondo patrimoniale oggetto della più recente pronuncia sul tema, ad una progressiva estensione del concetto di “bisogni della famiglia”.

La Cassazione, nella sentenza n.3568/2015, non fa altro, in realtà, che mantenere fermo il suo orientamento sulla questione dell’ammissibilità dell’azione revocatoria dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale al fine di tutelare i creditori. La Corte, richiamando la precedente giurisprudenza, afferma che: “la costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia, anche qualora effettuata da entrambi i coniugi, non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti, suscettibile, pertanto, di revocatoria, a norma della L. Fall., art. 64, salvo che si dimostri l’esistenza, in concreto, di una situazione tale da integrare, nella sua oggettività, gli estremi del dovere morale ed il proposito del “solvens” di adempiere unicamente a quel dovere mediante l’atto in questione”.

Il sistema revocatorio permette, secondo la Cassazione, una tutela dei diritti dei creditori anteriori all’atto, effettuando una valutazione sugli effetti segregativi ex post, in termini di diminuzione del patrimonio del debitore. In questo modo, agendo sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo, il creditore agisce in funzione conservativa della garanzia patrimoniale tendente alla caducazione degli effetti dell’atto, se si riscontri in concreto un pregiudizio per lo stesso pur sempre rapportato alla consistenza complessiva del patrimonio del debitore. D’altra parte, l’interpretazione in senso estensivo del concetto di bisogni della famiglia, tende a ridurre la portata del divieto di esecuzione sui beni conferiti nel fondo e sui relativi frutti ex art. 170 c.c. cercando, così, di realizzare quel bilanciamento tra contrapposti interessi di cui sopra.

Anche alla luce della recente giurisprudenza della Suprema Corte sopra richiamata che, come chiarito, resta ancorata ad un’idea di responsabilità patrimoniale classica e non si discosta minimamente da quanto affermato in tempi risalenti, si può concludere auspicando un intervento normativo contenente un riconoscimento formale del trust.

Quest’ultimo istituto, infatti, anche se derivante da una cultura giuridica diversa dalla nostra, si è mostrato utile proprio per la sua estrema adattabilità a differenti situazioni. Il riconoscimento attraverso una codificazione sistematica da parte del legislatore italiano permetterebbe, in definitiva, di limitare quei periodici dubbi interpretativi che comportano la necessità di giustificare, giuridicamente, la figura del trust rispetto a principi cardini del nostro sistema giuridico, principi che la giurisprudenza sembra non volere modificare.

La difficoltà oggettiva è quella di garantire il rispetto dei principi generali del nostro ordinamento (in particolare quelli di rango costituzionale) senza, tuttavia, imbrigliare l’istituto sotto precisi schemi, che andrebbero sostanzialmente a travolgere la sua stessa essenza cioè quella di consentire la creazione di un rapporto fiduciario tra più soggetti avente ad oggetto l’amministrazione e l’utilizzazione di beni a vantaggio di uno o più beneficiari, o di uno scopo.



[1] R. Franceschelli, Il Trust nel diritto inglese, Padova.
[2] G. Doria, Relazione introduttiva, in Le nuove forme di organizzazione del patrimonio, Torino 2010.