Pubblicato su Rivista Ambiente n.100 2015
A distanza di più di quindici anni dall’emanazione del D.lgs 231/2001, che introdusse nel nostro ordinamento la responsabilità amministrativa degli enti per i reati c.d. di criminalità d’impresa, si registrano nuove iniziative legislative volte ad ampliare ulteriormente la tutela del bene ambiente rispetto a fattispecie criminose poste in essere da enti e persone giuridiche. In particolare in questi giorni è all’esame del Parlamento un disegno di legge riguardante l’introduzione nel codice penale di due nuove figure di reato: l’art. 452 bis, che introduce la fattispecie delittuosa dell’inquinamento ambientale, e l’art. 452 ter che introduce quella del disastro ambientale.
Ripercorrendo le tappe fondamentali del percorso che ha introdotto, anche nel nostro ordinamento, la responsabilità degli enti per i reati c.d. di criminalità d’impresa, giova rammentare, anzitutto, che il fondamento del D.lgs 231/2001 era quello di porre rimedio alla crescita esponenziale di fenomeni illegali quali: aumento dei white colar crimes; sviluppo della criminalità di profitto; aumento di forme di illiceità verso beni collettivi; crisi del diritto penale individuale. Il legislatore voleva, sostanzialmente, creare un sistema che, nel permettere la punibilità della persona giuridica, evitasse la violazione dell’art. 27 Cost. il quale prevede, com’è noto, che “la responsabilità penale è personale”, espressione del principio societas delinquere non potest. Nel nostro ordinamento, infatti, è soltanto l’individuo umano, in quanto persona fisica, a poter essere responsabile penalmente.
I reati ambientali, non previsti nell’originaria formulazione del decreto, sono stati aggiunti in un secondo momento agli altri reati presupposto (c.d. reati di criminalità d’impresa quali ad esempio reati tributari o societari). In effetti, sebbene fosse noto da tempo che la maggioranza dei fenomeni d’inquinamento sono provocati proprio da attività imprenditoriali, esercitate da enti con personalità giuridica, soltanto sotto la spinta dell’Unione Europea (che, con la direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente, esprimeva la necessità di sanzionare le persone giuridiche per la commissione di reati ambientali) il legislatore italiano, a distanza di dieci anni, ha allargato la responsabilità amministrativa degli enti anche alla violazione di norme sulla tutela dell’ambiente. In attuazione della direttiva europea, il D.Lgs n.121/2011 ha inserito nel D.lgs. 231/2001 l’articolo 25-undecies, il quale prevede delle sanzioni pecuniarie a carico degli enti giuridici in caso di commissione di una serie di reati ambientali.
Tralasciando gli sforzi della dottrina giuridica penalistica volti alla ricerca di una qualificazione di detta responsabilità che concordi con i principi cardine che regolano il diritto penale, è opportuno invece analizzare le modalità effettive in cui opera la responsabilità degli enti come prescritta dalla attuale normativa.
Il modello di responsabilità del D.lgs 231/2001 è incentrato su un’imputazione c.d. “di rimbalzo” che non prescinde, cioè, totalmente dalla persona fisica che materialmente pone in essere il comportamento sanzionabile. Essa si verifica allorché un soggetto, avente funzione di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente (c.d. “vertici” o “apicali”), ovvero una persona sottoposta alla vigilanza o direzione di quegli stessi soggetti, commetta, nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso, uno dei reati elencati dagli artt. 25 ss. dello stesso decreto
Il primo criterio fissato dal decreto per consentire l’imputazione dell’illecito all’ente persona giuridica, consiste quindi nel “vantaggio” che ricava l’ente dal reato o nell’“interesse” che ha mosso l’azione criminosa. Cercando di cogliere, in via interpretativa, il senso dell’inclusione dell’alternativa tra interesse e vantaggio, si potrebbe affermare come il legislatore, in questo modo, abbia voluto prendere in considerazione anche la situazione in cui la condotta criminosa, pur promossa nell’interesse dell’ente, non abbia raggiunto l’obbiettivo o, addirittura, abbia provocato l’effetto perverso di un danno all’ente. Su quest’aspetto un importante apporto interpretativo è stato fornito dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 38343/2014, relativa al processo ThyssenKrupp, che conferma l’alternatività tra i due criteri specificando che il vantaggio realizzato potrebbe anche non coincidere con il solo interesse dell’impresa.
Altro criterio d’imputazione è quello riguardante il “soggetto autore del reato” che, nel campo della responsabilità degli enti, deve trovarsi in posizione apicale oppure, nel caso si tratti di persona sottoposta, è necessario che il reato da questi commesso sia stato reso possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza. Sostanzialmente la responsabilità amministrativa degli enti si basa su una colpa di organizzazione: l’ente risponde del reato là dove può essergli rimproverato di non avere adottato idonei modelli organizzativi. È, infatti, previsto un esonero di responsabilità dell’ente nel caso in cui esso provi di essersi dotato di un valido modello organizzativo, di gestione e controllo, finalizzato a formalizzare procedure e/o protocolli operativi della stessa, che diano forma a “presidi” creati per evitare la commissione di reati-presupposto. Al controllo di tali “presidi” deve essere posto un organismo di vigilanza e controllo, dotato delle caratteristiche d’indipendenza e professionalità.
Pertanto, l’Ente è responsabile non solo per i reati commessi nel suo interesse e vantaggio dai soggetti apicali, ma anche rispetto all’operato di quei soggetti che esercitano il controllo e in caso di inosservanza di obblighi di direzione o vigilanza (ex artt. 5 e 7 del D.Lgs. n. 231/2001), sollevando così il problema relativo al rilievo che debba avere il fatto di reato, realizzato dall’organo di controllo, ai fini dell’imputazione di quel fatto all’ente stesso. In buona sostanza, non è chiaro se il reato commesso nell’esercizio della gestione dell’ente o della funzione di controllo conduce, in entrambe le ipotesi, all’ascrizione del reato all’ente oppure se, a prescindere dalla funzione, deve trattarsi in ogni caso di soggetto titolare della gestione, anche se esercita funzioni di controllo. La questione è stata di recente affrontata dalla sentenza n. 3307/2013 della Corte di cassazione – V Sezione Penale, in materia di reati di aggiotaggio e false comunicazioni sociali, nella quale si afferma che il controllore (ad esempio, internal audit committee) non deve essere subordinato al controllato se si vuole che il controllo sia effettivo e non “meramente cartolare”. La stessa sentenza tocca anche un altro punto cruciale sul dibattuto tema della sindacabilità da parte del giudice dei modelli organizzativi: la conformità ai modelli etero formati (ISO 9001- EMAS) non vale a conferire ai modelli il crisma della non censurabilità. Il giudice – secondo la Suprema Corte – non potrebbe essere, del resto, “vincolato ad una sorta di ipse dixit aziendale e/o ministeriale in una prospettiva di privatizzazione della normativa da predisporre per impedire la commissione di reati”.
In definitiva si può affermare che il Giudice deve poter valutare il modello adottato dall’ente, rispetto anche alla realtà imprenditoriale nella quale lo stesso ente è calato.
Infine, per quanto riguarda i reati presupposto il D.lgs n. 231/2001 configura con riferimento alla tutela ambientale, solo contravvenzioni, ovvero reati di minore gravità, che contemplano quindi solo sanzioni pecuniarie.
Nella pratica giudiziaria, a dispetto dell’incremento dei casi d’inquinamento ambientale riconducibili, nella quasi totalità, ad enti e persone giuridiche, la disciplina del D.lgs 231/2001 è, tuttavia, poco applicata. Le cause di tale limitata applicazione sono molteplici: dalla estrema tecnicità della materia che incoraggerebbe una certa “pigrizia giudiziale”, alla circostanza che diventa sempre più difficile attivare un meccanismo di accertamento giudiziario certamente complesso e di rilievo a fronte di reati c.d. bagatellari. Ciò è emerso anche dal recentissimo incontro tenutosi il 17 aprile u.s. presso l’Aula Magna della Suprema Corte di cassazione, dove i maggiori esperti della materia ambientale, magistrati e docenti universitari, hanno tracciato un quadro dell’odierna situazione applicativa della responsabilità amministrativa degli enti in ambito di diritto penale dell’ambiente.
Come inizialmente si precisava, il Parlamento è intento ad approvare le norme che dovrebbero portare alla introduzione dei due nuovi reati di inquinamento ambientale e disastro ambientale. Sino ad oggi è sempre stata la giurisprudenza a ricondurre le fattispecie concrete di grave pregiudizio per l’ambiente nell’ambito di articoli del codice penale di previsione più generica, come quello relativo all’inquinamento delle acque (art.439 c.p.) e quello del c.d. disastro innominato (art. 449 c.p.). A breve si dovrebbe, invece, arrivare all’introduzione di fattispecie delittuose e non contravvenzionali riguardanti specificamente l’inquinamento ed il disastro ambientale. Vedremo, dunque, se questa ulteriore innovazione legislativa, volta a punire più incisivamente i suddetti fenomeni, porterà una maggiore repressione degli stessi, con una conseguente rafforzata tutela dell’ambiente.