Di Avv. Samantha Pinna – Studio Limardi
Articolo Pubblicato sulla rivista Filodiritto l’11 giugno 2020. Tutti i diritti sono di Filodiritto.
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Il principio giuridico fondamentale su cui poggia il nostro sistema di diritto sindacale è, ovviamente, il primo comma dell’articolo 39 della Costituzione, ai sensi del quale “L’organizzazione sindacale è libera.”. Il diritto di organizzarsi liberamente è volutamente concetto molto ampio e si differenzia dalla libertà di associazione, di cui all’articolo 18 della Costituzione, in quanto comprende ogni possibile forma organizzativa, anche diversa da quella associativa, purché idonea a ricevere la qualificazione di sindacale.
Ciò posto, è di tutta evidenza come sia l’associazione a costituire la forma qualificata di organizzazione sindacale storicamente prevalente, disciplinata dalle norme civilistiche che regolano le associazioni non riconosciute o di fatto (articoli 36 – 38 codice civile).
L’applicazione delle disposizioni di diritto comune anche all’associazione qualificata dalla natura sindacale è una diretta conseguenza della mancata attuazione del modello costituzionale disposto dall’articolo 39, commi 2 e ss.. Tali commi stabiliscono, infatti: che ai sindacati non possa essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge; che condizione per la registrazione sia la democraticità degli statuti; che attraverso la registrazione essi acquistino la personalità giuridica ed, infine, che i sindacati registrati, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, possano stipulare contratti collettivi dotati di efficacia generale.
Effetto della registrazione sarebbe stata, quindi, l’acquisizione della personalità giuridica e l’attribuzione di efficacia generale ai contratti collettivi da essi negoziati.
Tale formulazione permetteva, da un lato, di affermare con forza il principio di libertà sindacale, dall’altro, creava un meccanismo per il quale col minimo possibile di intervento dello Stato, veniva attribuito ai sindacati il potere di porre in essere norme generalmente vincolanti.
Contrariamente al principio delineato dal primo comma, che assunse subito un rilievo di norma cardine del sistema, il meccanismo sopra delineato necessitava, per diventare operativo, di una serie di specificazioni da parte della legislazione ordinaria, tuttavia mai realizzate.
Le ragioni della mancata attuazione sono varie. Principalmente si temeva che il procedimento di registrazione divenisse uno strumento di intromissione dello Stato nella vita interna del sindacato.
Si è così andato consolidando un sistema sindacale di fatto che a partire dagli anni sessanta ha acquisito un alto grado di potere contrattuale e politico.
Come anticipato, la traduzione di questa scelta politica in termini giuridici ha comportato il rifiuto di soluzioni che collocassero la regolamentazione dell’esperienza sindacale all’interno del diritto pubblico per agganciarla saldamente ai moduli del diritto privato.
Ne consegue che l’organizzazione sindacale finisca col qualificarsi giuridicamente quale associazione non riconosciuta, categoria questa che qualifica normativamente fenomeni organizzativi molto diversi tra loro, dai più modesti, quali possono essere ad esempio i circoli ricreativi, alle formazioni complesse e socialmente più rilevanti, quali sono, appunto, partiti e sindacati.
In tale contesto, meritevoli di approfondimento appaiono le implicazioni derivanti dall’interpretazione dell’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori il quale dispone che, di fronte ad un comportamento del datore di lavoro diretto a impedire o a limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero, gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse possano proporre ricorso al Tribunale del luogo ove è stato posto in essere il comportamento, per chiedere che quest’ultimo cessi e che i suoi effetti vengano rimossi.
Tale articolo, rubricato “Repressione della condotta antisindacale” costituisce, quindi, nelle relazioni industriali a livello di azienda, uno strumento efficace per rendere effettivi il principio di libertà sindacale.
Legittimato alla proposizione dell’azione è il sindacato e, precisamente, gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, sono esclusi, pertanto, sia i singoli lavoratori, sia tutte le organizzazioni che non abbiano rappresentatività nazionale.
Proprio in relazione a tale esclusione erano state inizialmente sollevate alcune questioni di legittimità costituzionale, poi risolte con la sentenza n. 54 del 1974. La Corte ha, infatti, rilevato come l’articolo 28 dello Statuto non si sostituisca, ma si aggiunga agli ordinari strumenti processuali. Ne deriva che ogni singolo lavoratore potrà ricorrervi qualora la sua posizione sia stata lesa dal comportamento antisindacale dell’imprenditore.
La Corte ha anche escluso ogni contrasto con l’articolo 39 della Costituzione. La limitazione della legittimazione attiva ex articolo 28, infatti, non incide sulla libertà di organizzazione sindacale in quanto rimane ferma la possibilità per tutti i sindacati di ricorrere all’ordinaria tutela giurisprudenziale. E, in ogni caso, il requisito della struttura associativa nazionale è un requisito aperto, nel senso che è realizzabile da tutte le organizzazioni.
Con riferimento al principio di uguaglianza la stessa Corte ha rilevato come l’articolo 28, proprio per la sua efficienza e forza di penetrazione nel sistema di relazioni industriali, sarebbe uno strumento pericoloso in mano a sindacati che, operando esclusivamente in una determinata area geografica, non diano affidamento di un suo uso responsabile. Con tale disposizione il legislatore ha, quindi, dettato una disciplina differenziata, operando una distinzione tra associazioni sindacali che hanno accesso anche a questo strumento processuale di tutela rafforzata dell’attività sindacale e altre associazioni sindacali che hanno accesso solo alla tutela ordinaria attivabile ex articolo 414 c.p.c. e seguenti.
Anche il requisito della nazionalità è stato oggetto di numerose pronunce da parte della Corte di Cassazione che, pur statuendo che esso non può desumersi da dati meramente formali e da una dimensione statica, puramente organizzativa e strutturale, dell’associazione, essendo necessaria anche un’azione diffusa a livello nazionale, nondimeno hanno puntualizzato che non necessariamente essa deve coincidere con la stipula di contratti collettivi di livello nazionale.
In breve, ciò che rileva è la diffusione del sindacato sul territorio nazionale, a tal fine essendo necessario e sufficiente lo svolgimento di un’effettiva azione sindacale non su tutto, ma su gran parte del territorio nazionale, senza che in proposito sia indispensabile cha l’associazione faccia parte di una confederazione né che sia maggiormente rappresentativa.
Sul punto si veda anche la sentenza della Cassazione n. 19272, del 02 agosto 2017, ai sensi della quale, ai fini della legittimazione a promuovere l’azione prevista dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, per “associazioni sindacali nazionali” devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale e che svolgano attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali che rimane, comunque, un indice tipico, ma non l’unico, rilevante ai fini della individuazione del requisito della “nazionalità”.
“In tema di repressione della condotta antisindacale, va riconosciuta la legittimazione ad agire agli organismi locali di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, né intercategoriali o aderenti a confederazioni, se il sindacato sia diffuso sul territorio nazionale, dovendosi ritenere, a tal fine, determinante lo svolgimento di effettiva azione sindacale, non su tutto, ma su gran parte del territorio nazionale. Ne consegue che la stipula di un contratto collettivo nazionale, nonostante l’indubbia rilevanza sintomatica della rappresentatività che ne discende, non costituisce l’unico elemento significativo, né lo svolgimento di effettiva attività sindacale può essere ravvisato solo nella stipulazione di un contratto collettivo esteso all’intero ambito nazionale.” (vd. Cassazione n. 11322, del 01.06.2015).
Non deve confondersi, anche a seguito della sentenza n. 231 del 2013 della Corte Costituzionale, la legittimazione ai fini dell’articolo 28, con i requisiti richiesti dall’articolo 19 della medesima legge per la costituzione di rappresentanze sindacali titolari dei diritti di cui al titolo terzo.
L’articolo 19, infatti, mira a valorizzare l’effettività dell’azione sindacale, desumibile dalla partecipazione alla formazione della normativa contrattuale collettiva quale indicatore di rappresentatività sempre direttamente conseguibile e realizzabile da ogni associazione sindacale in base a propri atti concreti e oggettivamente accertabili dal giudice.
La rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro, espresso in forma pattizia, ma è una qualità giuridica attribuita dalla legge alle associazioni sindacali che abbiano stipulato contratti collettivi (nazionali, locali o aziendali) applicati nell’unità produttiva. L’esigenza di oggettività del criterio legale di selezione comporta un’interpretazione rigorosa della fattispecie dell’articolo 19, tale da far coincidere il criterio con la capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro, direttamente o attraverso la sua associazione, come controparte contrattuale. Non è perciò sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto.
Nemmeno è sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi, ma deve trattarsi di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale, di un contratto nazionale o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva.
Ricapitolando, quindi, l’articolo 19 richiede, per la costituzione di rappresentanze sindacali, la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali (o anche provinciali o aziendali, purché applicati in azienda), mentre l’articolo 28 non prevede analogo requisito, implicante il consenso della controparte datoriale, ma richiede esclusivamente che l’associazione sia nazionale. L’accertamento di fatto relativo al requisito di rappresentatività necessario per l’accesso alla tutela prevista dall’articolo 28 dello Statuto costituisce indagine demandata al giudice di merito e, pertanto, è incensurabile, in sede di legittimità, ove assistita da sufficiente motivazione.