La contrattazione collettiva e l’obbligo di adesione agli enti bilaterali

Avvocato Samantha Pinna – Studio Legale Limardi

Articolo Pubblicato sulla rivista Filodiritto l’11 luglio 2019. Tutti i diritti sono di Filodiritto.
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Gli Enti bilaterali sono divenuti sempre più lo strumento attraverso il quale realizzare concretamente gli obiettivi concordati in sede di contrattazione, sia nazionale che territoriale. Tale centralità impone una riflessione sui predetti organismi ed, in particolare, un’analisi delle problematiche ad essi connesse.

Il nostro ordinamento attribuisce, infatti, a tali enti una serie di delicati compiti e funzioni quali: sostenere e far crescere le imprese e i loro dipendenti, promuovere la formazione professionale e la sicurezza sul lavoro, fornire un tavolo di confronto tra il mondo dei datori di lavoro e quello dei lavoratori, sviluppare concretamente progetti e ricerche di utilità per il mondo del lavoro.

La bilateralità ha assunto, dunque, un ruolo fondamentale rappresentando un contributo efficace ed una risposta adeguata al bisogno di consolidare una democrazia pluralista in cui l’espletamento delle funzioni sociali non può più essere riservato esclusivamente allo Stato e all’apparato amministrativo, ma deve necessariamente coinvolgere direttamente le organizzazioni sindacali, datoriali e dei lavoratori.

In questo senso si impongono gli enti bilaterali, ovverosia enti privati, di natura contrattuale, costituiti dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative a livello nazionale; sono organismi paritetici (nel senso che i rappresentanti dei lavoratori e quelli dei datori di lavoro sono in numero eguale tra loro) e sono finanziati con contributi a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori.

Attraverso la bilateralità, le Parti Sociali si affrontano sulle materie che ritengono di comune interesse e per le quali trovano opportuno, oltre che vantaggioso, operare congiuntamente.

La bilateralità diviene, quindi, la soluzione più autorevole e credibile per superare ogni residua cultura antagonistica, una virtuosa alleanza tra capitale e lavoro in un mondo sempre più destinato a sopportare cause di instabilità economica e sociale.

Venendo ora alle criticità generate da tale sistema, le maggiori perplessità, in tema di enti bilaterali, sono sorte in ordine alla obbligatorietà o meno dell’iscrizione del datore di lavoro all’ente bilaterale di riferimento.

Prima di esaminare nello specifico tutte le problematiche che da ciò scaturiscono, appare doveroso ricostruire brevemente il contesto normativo in cui tali enti bilaterali nascono ed operano.

Come sopra accennato, gli enti bilaterali sono enti aventi natura contrattuale costituiti dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative a livello nazionale.

Ebbene, la contrattazione collettiva rappresenta senz’altro, nel nostro ordinamento, la massima espressione dell’attività sindacale, e riveste un ruolo chiave nella regolamentazione dei rapporti di lavoro.

Secondo il sistema delineato dalla Costituzione, gli accordi collettivi avrebbero dovuto avere efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. A tal fine l’art. 39 stabilisce che i Sindacati debbano essere registrati e che i loro Statuti sanciscano un ordinamento interno a base democratica. Tale previsione è, tuttavia, rimasta inattuata. Pertanto, in assenza di norme specifiche (o, meglio, applicabili), la contrattazione collettiva ha finito con l’essere soggetta alle norme generali in materia di contratti.

Prima conseguenza, sul piano soggettivo, è che secondo il diritto comune il contratto vincola esclusivamente le parti stipulanti. Occorre innanzi tutto individuare, quindi, quali siano i soggetti nei confronti dei quali tale forma di regolamentazione dei rapporti di lavoro dispieghi la propria efficacia.

In effetti, mediante l’istituto della rappresentanza è possibile considerare gli accordi collettivi applicabili anche ai lavoratori ed ai datori di lavoro iscritti alle associazioni sindacali stipulanti. Il sindacato, infatti, agisce per conto del rappresentato (lavoratori e datori di lavoro) ed i contratti collettivi da questo siglati, pertanto, producono effetti in capo agli iscritti.

Ne deriva che i contratti collettivi di diritto comune, in quanto atti aventi natura negoziale e privatistica, hanno efficacia vincolante per gli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e per coloro che, esplicitamente o implicitamente, abbiano prestato adesione al contratto.

Ciò trova conferma nella consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale l’obbligo di applicare un determinato contratto collettivo di categoria non sorge solo per i soggetti iscritti alle associazioni stipulanti, ma può riguardare anche quei datori di lavoro che, pur non essendo iscritti, abbiano scelto spontaneamente di recepire il contenuto di quel contratto collettivo attraverso una manifestazione di volontà.

Il CCNL ha, dunque, efficacia vincolante non soltanto per gli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti, ma anche per coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto hanno prestato adesione.

Venendo ora all’aspetto oggettivo del contratto collettivo, si rende quantomeno opportuna una preliminare analisi della natura delle clausole che possono comporlo, al fine di comprendere quali di queste siano direttamente applicabili ai lavoratori e ai datori di lavoro.

All’interno del contratto collettivo è possibile, infatti, distinguere una parte normativa ed una parte obbligatoria.

La parte normativa contiene disposizioni volte a disciplinare ogni singolo rapporto di lavoro in merito al trattamento economico e normativo.

La parte obbligatoria contiene, invece, disposizioni volte, non a disciplinare direttamente il rapporto di lavoro, ma a regolare i rapporti fra le associazioni sindacali partecipanti alla stipulazione dei contratti collettivi. Tali clausole, quindi, non svolgono un immediato e diretto effetto normativo sui contratti e sui rapporti di lavoro, ma creano obblighi a carico delle parti stipulanti, il cui contenuto consiste nello svolgimento di alcune attività positive, aventi spesso una funzione strumentale rispetto agli istituti normativi.

Per tale ragione, i datori di lavoro che applicano un determinato contratto collettivo non sono tenuti all’applicazione delle clausole contenute nella parte c.d. obbligatoria.

Tale assunto prescinde, ovviamente, dal fatto che l’azienda sia o non sia iscritta alle associazioni sindacali stipulanti. Ciò che rileva, infatti, affinché le clausole si considerino ricomprese nella parte obbligatoria del CCNL, è che gli obblighi in esse contenuti possano essere attuati esclusivamente dalle associazioni sindacali stipulanti senza creare obblighi direttamente a carico delle parti.

Tale premessa si è resa necessaria per inquadrare correttamente le clausole contrattuali che disciplinano gli enti bilaterali (in particolare quelli aventi ad oggetto forme di assistenza sanitaria integrativa o di previdenza complementare) e, dunque, comprendere se queste costituiscano o meno un obbligo esclusivamente per i soggetti collettivi contraenti.

Come sopra ampiamente argomentato, infatti, ciò che viene ad essere ricompreso nella parte obbligatoria del CCNL sono esclusivamente quelle clausole che non svolgono un immediato e diretto effetto normativo sui contratti e sui rapporti di lavoro, ma creano obblighi a carico delle parti stipulanti.

Ne deriva che, una volta che le associazioni stipulanti abbiano adempiuto ai loro obblighi, l’attività di questi si svolgerà non solo nei confronti degli iscritti alle associazioni stipulanti, ma anche nei confronti di coloro che, pur non essendo iscritti, abbiano fatto riferimento, nei contratti individuali di lavoro, al contratto collettivo di categoria.

In particolare, l’obbligo di adesione ad enti bilaterali che garantiscono determinate prestazioni (quali assistenza sanitaria integrativa e previdenza complementare) ha un effetto normativo immediato e diretto sui contratti e sui rapporti di lavoro in essere, ponendo un vero e proprio diritto in capo ai lavoratori a vedersi garantire quelle specifiche forme di tutela.

Ne consegue che il datore di lavoro, qualora applichi il contratto collettivo di categoria, sarà in ogni caso tenuto ad assicurare ai propri dipendenti le prestazioni e le garanzie introdotte con gli accordi collettivi.

Sul punto, è intervenuto il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale che, con risposta all’interpello del 21.12.2006, ha confermato come debbano qualificarsi come obbligatorie e, dunque, costituenti obblighi solo per i soggetti collettivi contraenti, le disposizioni contrattuali “relative alla istituzione di enti bilaterali ed alla costituzione ed al funzionamento di casse integrative di previdenza e assistenza”. Con ciò facendo riferimento agli adempimenti richiesti alle parti contraenti per giungere alla costituzione del fondo. Tali obblighi, infatti, possono essere attuati solo dalle associazioni sindacali stipulanti, anche se gli effetti positivi, da esse derivanti, sono destinati a riversarsi sui singoli lavoratori.

L’obbligatorietà della tutela, invece, avendo efficacia sul contenuto delle situazioni di diritto che regolano il rapporto individuale di lavoro tra l’impresa e i propri dipendenti, deve essere ricondotta alla parte economico – normativa del contratto collettivo.

Da ciò deriva che l’obbligo di provvedere alla contribuzione ed al finanziamento dell’ente graverà, e grava, su tutti i datori di lavoro che applicano, di fatto, la parte economico – normativa del CCNL.

In tal senso si veda la sentenza, n. 243 del 19.04.2018, del Tribunale di Verona, che nell’affrontare, specificatamente, la questione ha stabilito che: “… dalla complessiva volontà contrattuale espressa nel testo del CCNL sopra richiamato si evince che l’efficacia obbligatoria della contrattazione collettiva riguarda esclusivamente gli adempimenti richiesti alle parti contraenti per giungere alla costituzione del fondo. (…) L’obbligo di provvedere alla contribuzione dal finanziamento del fondo, invece, grava a carico di tutti i datori di lavoro che applichino di fatto la parte normativa-retributiva del CCNL.”.

Peraltro, lo stesso Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali era già intervenuto nuovamente sull’argomento, con la circolare n. 43 del 2010, proprio al fine di precisare il proprio orientamento.

Se da un lato, per tutelare i principi in materia di libertà associativa (e, conseguentemente, di libertà sindacale negativa) si è ritenuto di poter considerare non obbligatoria l’iscrizione agli enti bilaterali, dall’altro lo stesso Ministero ha ritenuto di dover tenere distinte le ipotesi in cui i contratti collettivi di lavoro, dopo aver definito un sistema bilaterale volto a fornire tutele aggiuntive ai prestatori di lavoro nell’ottica di un innovativo welfare negoziale, dispongano, per quei datori di lavoro che non vogliano aderire al sistema bilaterale, l’obbligatorietà, non della iscrizione all’ente bilaterale, quanto del riconoscimento al prestatore di lavoro di analoghe forme di tutela, anche attraverso una loro quantificazione in termini economici.

Ciò in quanto imporre l’assolvimento di un obbligo contrattuale soltanto tramite l’iscrizione ad un organismo bilaterale costituito da una associazione di rappresentanza datoriale comporterebbe una violazione della libertà di associazione sindacale, costituzionalmente garantita, che si esplicita nella possibilità di aderire o non aderire ad una associazione di rappresentanza.

Ciò non toglie che la prestazione (intesa quale assistenza sanitaria o previdenziale integrativa) costituisca un diritto contrattuale del singolo lavoratore. L’iscrizione all’Ente bilaterale, quindi, non rappresenta altro che la modalità per il datore di lavoro di adempiere al corrispondente obbligo posto dalla contrattazione collettiva.

Questa è l’interpretazione resa anche dal Ministero del Lavoro, con la predetta circolare del 2010, ai sensi della quale: “L’impresa che aderisce alla bilateralità assolve, con la contribuzione a favore dell’ente, agli obblighi in materia nei confronti dei lavoratori. Diversamente, per le imprese che non aderiscono al sistema bilaterale, il singolo lavoratore maturerà il diritto all’erogazione diretta, da parte del datore di lavoro, di prestazioni equivalenti a quelle erogate dal sistema bilaterale di riferimento.”

Il datore di lavoro che non aderisce alle Associazioni firmatarie del CCNL applicato, pertanto, nel rispetto del proprio diritto alla sindacalità negativa, non avrà l’obbligo contrattuale di aderire all’Ente bilaterale di riferimento, ma, qualora non vi aderisca, sarà obbligato a corrispondere al lavoratore un elemento distinto della retribuzione, mediante il riconoscimento di una somma e/o di una prestazione equivalente a quella erogata dalla bilateralità.

L’omissione del versamento all’ente bilaterale obbliga, pertanto, il datore di lavoro a riconoscere al lavoratore una prestazione equivalente a quella erogata dalla bilateralità.

Tale soluzione ha il pregio di contemperare il diritto dell’imprenditore a non veder lesa la propria libertà sindacale negativa, costituzionalmente tutelata, con il diritto del lavoratore a vedersi corrispondere quelle prestazioni che sono parte integrante del trattamento retributivo.

È del tutto pacifico che il rispetto del principio di libertà sindacale negativa comporti che nessun obbligo di adesione all’ente bilaterale possa imporsi per le imprese non associate alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo, ma tale principio non risulta in alcun modo scalfito dalla soluzione adottata dal Ministero.

L’imprenditore rimane infatti libero di scegliere se aderire o meno all’ente bilaterale. Ciò che gli è precluso è, invece, privare il lavoratore di tutele che altri ricevono per il solo fatto di essere dipendenti di aziende iscritte alle associazioni stipulanti il contratto collettivo. È evidente che in tale ipotesi sussisterebbe una ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento, in violazione di principi parimenti costituzionali, in particolare, quelli di uguaglianza e di giusta retribuzione.

Riferimenti bibliografici e giurisprudenziali

Cassazione Civile – sentenza n. 2665 del 1997;
Cassazione Civile – sentenza n. 27115 del 2017;
Cassazione Civile – sentenza n. 530 del 2003;
Cassazione Civile – sentenza n. 5625 del 2000;
Tribunale di Verona – sentenza n. 243 del 19.04.2018;
Interpello del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del 21.12.2006;
Circolare n. 43 del 2010 del Ministero del Lavoro.