End of Waste: il recupero dei rifiuti dopo la sentenza 1229/18 del Consiglio di Stato.

di Avv. Gianluca Limardi

Pubblicato in Rivista Ambiente Prevenzione e Soccorso N. 113/2018

Il Consiglio di Stato ha messo ordine nella complessa vicenda riguardante la definizione dei criteri End of Waste per la cessazione della qualifica di rifiuto. I giudici della IV Sezione, infatti, hanno stabilito, con la sentenza n. 1129/2018 del 28 febbraio u.s., che spetta allo Stato e non alle Regioni il potere di individuare, ad integrazione di quanto già previsto dalle direttive comunitarie, sulla base di analisi caso per caso, le ulteriori tipologie di materiale da non considerare più come rifiuti ma come nuovo prodotto a valle delle operazioni di riciclo.

Prima di esaminare la pronunzia è opportuno fare un passo indietro. Il termine End of Waste si riferisce ad un processo di recupero eseguito su un rifiuto, in seguito al quale esso perde tale qualifica per tornare a svolgere un ruolo utile come prodotto.

Tale concetto è stato introdotto dalla “Strategia tematica sulla prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti”, adottata dalla Commissione europea nel 2005, nella quale si proponeva di precisare le condizioni per la cessazione della qualifica di rifiuto nell’ambito della revisione della Direttiva 2008/98/CE.

In particolare, l’articolo 6, paragrafo 1 della sopra citata direttiva quadro stabilisce che, a livello pratico, un rifiuto cessa di essere tale qualora sia sottoposto ad un’operazione di recupero e risulti conforme a specifici criteri da elaborare nel rispetto delle seguenti condizioni:

  • il materiale (sostanza od oggetto) deve essere comunemente utilizzato per scopi specifici;
  • deve esistere un mercato o una domanda per tale materiale;
  • il materiale deve soddisfare i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispettare la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
  • infine, l’utilizzo del materiale non deve portare ad impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

Suo tramite, la normativa italiana in materia ambientale, che trova riferimento nel D.Lgs. n. 152/2006, ha introdotto una nuova disposizione ad hoc: l’art. 184-ter, rubricato “Cessazione della qualifica di rifiuto”, che riprende pedissequamente le condizioni di cui all’art. 6 della Direttiva.

I criteri per l’End of Waste, sebbene espressamente richiamati dall’art. 184-ter, non sono definiti a livello di norma primaria e, pertanto, devono essere individuati, per ogni rifiuto, nel rispetto delle predette macro condizioni.

Relativamente alla definizione di tali criteri – tasto dolente della vicenda – la Guida all’ interpretazione della direttiva quadro sui rifiuti distingue un duplice approccio: quello europeo e quello nazionale.

Il primo livello è, dunque, rappresentato dalla definizione di criteri a livello di ordinamento UE mediante l’adozione di regolamenti immediatamente applicabili negli ordinamenti degli stati membri. L’elaborazione di detti criteri, riguardando ogni tipologia di sostanza/rifiuto, sta avvenendo per gradi e nel tempo; l’Unione europea ha, infatti, provveduto a dettare i criteri soltanto per alcune tipologie di rifiuto, mentre altri sono attualmente in fase di elaborazione.

In assenza di tali criteri, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, quando un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale, tenendo in considerazione la normativa applicabile nonché la giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Definito il quadro normativo attualmente vigente in materia End of Waste occorre ora volgere lo sguardo alla prassi consolidata, almeno sino alla pronuncia del Consiglio di Stato, relativa al rilascio di autorizzazioni allo svolgimento di operazioni di recupero di rifiuti per quelle sostanze per le quali non siano stati definiti criteri a livello di ordinamento dell’Ue.

È qui, infatti, che nasce il problema maggiore. Ciò che sino ad oggi è accaduto, e che ha trovato l’avvallo della giurisprudenza e dello stesso Ministero dell’ambiente, è l’individuazione dei criteri caso per caso, da parte delle Regioni, nell’ambito delle procedure amministrative di autorizzazione, ove questi non siano stati definiti a livello europeo o da atti normativi interni.

Invero, le Regioni hanno provveduto alla definizione di detti criteri nell’ambito delle procedure amministrative di autorizzazione ordinarie ex art 208 D.Lgs. n. 152/2006, ovvero di rilascio di autorizzazioni integrate ambientali (cd. A.I.A.), non potendo intervenire a livello normativo, in ragione della sussistenza di una competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente.

E’ in questo quadro che si inserisce la sentenza in commento. La vicenda sottesa alla discussa pronuncia riguarda il caso di un’impresa – già autorizzata, per un periodo di due anni, ad effettuare attività sperimentale per il trattamento ed il recupero di determinati rifiuti urbani e assimilabili – alla quale la Giunta regionale Veneto ha respinto la richiesta di riqualificare le attività svolte nel proprio impianto industriale “al fine di perfezionare il processo di trattamento per migliorare la qualità dei materiali riciclabili”. Impugnando il diniego, l’azienda ha incontrato il favor del Tribunale Amministrativo Regionale che, annullando il provvedimento, con sentenza n. 1422/2016, confermava espressamente il principio per cui “le Regioni possono definire criteri “EoW” in sede di rilascio delle autorizzazioni di cui agli articoli 208, 209 e 211, citati, sempre che per la stessa tipologia di rifiuto tali criteri non siano stati definiti con regolamento comunitario o con un decreto ministeriale emanato ai sensi del comma 2, del citato articolo 184-ter”.

I giudici del Consiglio di Stato sono stati lapidari nel “demolire” le precedenti conclusioni: il potere di determinare la cessazione della qualifica di rifiuto è affidato, per la direttiva 2008/98/CE, alla Commissione Ue ed esclusivamente allo Stato, il quale, delegando il Ministero dell’Ambiente, non riconosce alcuna competenza concorrente, né sussidiaria, ad enti diversi. D’altra parte –  sottolineano i giudici – la previsione della competenza statale su questa materia appare del tutto coerente anche con l’art. 117, comma secondo lett. s) della Costituzione che attribuisce alla potestà legislativa esclusiva statale la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

La pronunzia ha un impatto considerevole ed apre scenari di notevole criticità. Le Regioni, infatti, non potranno più definire i criteri EoW con autorizzazione ordinaria e, conseguentemente, potranno essere recuperati soltanto quei limitati rifiuti presenti nei più risalenti decreti sul recupero agevolato, quelli di cui ai pochi regolamenti Ue in materia di rottami di metalli, rame e vetro ed all’unico decreto nazionale sul combustibile solido secondario.

Tali provvedimenti, ormai superati sia come standard tecnici che come applicazioni, non offrono però una copertura sufficiente alle imprese che operano nei settori del riciclo. Sono centinaia, infatti, gli impianti che riciclano rifiuti grazie ai criteri EoW stabiliti nei provvedimenti autorizzativi della autorità locali, che rischiano ora di non essere rinnovati o addirittura revocati, causando il blocco delle attività di riciclo.

Seppure, quindi, plausibile da un punto di vista strettamente giuridico, la pronuncia del Consiglio di Stato rappresenta, senz’altro, un ostacolo importante al decollo dell’Economia Circolare, impedendo di fatto alle imprese impegnate nella gestione dei rifiuti di perfezionare cicli di recupero innovativi al fine di ottenere materiali che hanno perso la qualifica di rifiuti.

Di certo della pronunzia di cui sopra si parlerà molto in futuro.